"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 5 dicembre 2008

Changeling

Changeling

1928. Christine Collins vive con il figlio Walter in una New York caratterizzata da numerose polemiche nei confronti del corpo di polizia, accusato di violenza e corruzione. Così, quando il piccolo Walter scompare misteriosamente e viene poi ritrovato, la felicità della donna sembra coincidere con la ritrovata autorevolezza dei tutori della legge. Ma quello che è tornato a casa non sembra essere Walter, Christine ne è convinta e si scontra per questo con la polizia, che non intende ammettere l’errore e arriva a internare la donna pur di non far scoppiare uno scandalo. Ma la battaglia avrà un lungo esito.

Il cinema di Clint Eastwood da anni si è concretizzato in un lungo dialogo con la morte, diretto, sincero, asciutto. Eppure, a giudicare dalle ultime pellicole, qualcosa è cambiato e quel discorso che apparentemente pareva denunciare una sorta di status quo con una realtà che aveva cannibalizzato il trapasso proponendosi come spazio fantasmatico, inizia a manifestare dei cenni di protesta, e una voglia di tornare nella carne e nella mente dei personaggi. Non è più dunque tempo di raccontare la fine di un’epica attraverso le gesta di antieroi come Bill Munny (il protagonista de Gli spietati), né tantomeno di dissolvere i propri dubbi nell’annullamento conseguente un doloroso gesto di pietà (si veda il finale di Million Dollar Baby).

Con il nuovo, straordinario, Changeling, infatti, subentra una condizione di resistenza fieramente umana a un dolore vissuto come stasi persistente conto la quale combattere in nome dell’amore filiale. Se Million Dollar Baby in fondo era la storia di un rapporto fra un padre putativo e una giovane ragazza che perdeva la propria integrità fisica, Changeling riparte da quell’annullamento e da quella privazione per cercare una nuova forza, che faccia della protagonista Christine Collins un personaggio in grado di rivendicare il proprio diritto di stare al mondo. Contro gli inganni instillati dalla propaganda storico-sociale (si riveda Flags of Our Fathers) e contro la morte stessa che allunga le sue mani sulla vita del piccolo Walter. Il titolo stesso, non a caso, focalizza l’attenzione proprio sul cambiamento, quello che porta una donna sola a combattere per fare valere le proprie ragioni.

Christine Collins può permetterselo perché in fondo già all’origine la sua condizione è quella di una donna fuori dalle convenzioni del proprio tempo: cresce il figlio da sola in un momento storico certamente poco incline alla condizione della madre single (sebbene questo aspetto non sia particolarmente approfondito dal film), è la prima donna a essere nominata caporeparto nel centralino dove lavora, è, insomma, un personaggio emancipato e indipendente rispetto a una cultura maschilista facilmente identificabile nell’ambiente della polizia. Ma Eastwood dribbla agilmente la trappola della sociologia spicciola per andare al fondo dei sentimenti e di una rabbia che fa appello alla dignità. Ecco dunque che Christine combatte per fare valere il proprio punto di vista e riesce, attraverso una lunga e sofferente opera di sopportazione a svariate umiliazioni, a ottenere infine una legittimazione pubblica delle sue ragioni. Viene dunque rovesciato anche l’inevitabile approdo alla violenza e alla giustizia sommaria come base fondante della cultura e della società americana che caratterizzava il formidabile Mystic River.

Esaurite le formalità giuridiche, la battaglia di Christine diviene quindi intima e personale e riguarda i demoni dell’animo, le paure che la stessa protagonista deve tenere a bada per non recedere dai propri propositi e che si incidono sulla sua figura grazie all’ottima prova d’attrice di una ritrovata Angelina Jolie, che si dona al personaggio con un trasporto davvero commovente e coinvolgente incarnando con la sua esile figura una fisicità sofferta ma indomita. I suoi timori peraltro si riflettono in quelli di più personaggi: dalla polizia che teme per il suo calante prestigio ai bambini che subiscono le violenze del maniaco che li ha rapiti e torturati. Qui il film gioca le sue carte più forti attraverso una regia che senza compiacimenti riesce a trasmettere il senso della violenza, della paura e del dolore mettendo in scena uno spazio cupissimo e puramente noir, che sembra guardare direttamente alla forza espressiva di romanzieri come James Ellroy.

Materiale estremamente ricco in un racconto fluviale che riesce a tenere insieme le sue parti non solo per merito della lucidità e della pienezza del racconto tipicamente eastwoodiana, ma anche grazie anche al lavoro di sceneggiatura del grande J. Michael Straczynski, vero deus ex machina del progetto, da lui inseguito per molto tempo a partire da un fatto reale. Una personalità, quella di Straczynski, eclettica e capace di lavorare, attraverso gli anni, su prodotti di vario genere e formato (cartoni animati televisivi, fumetti, film cinematografici), sempre con grande onestà e capacità. L’incontro con la sensibilità eastwoodiana è stato dunque l’unico approdo possibile per ottenere il risultato migliore.

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Dichiarazioni di Angelina Jolie

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Vedo che è piaciuto moltossimo anche a te, sono contenta!
Ale55andra

Tamcra ha detto...

sono contenta che tu abbia citato per The Changeling James Ellroy, che con I miei luoghi oscuri fornisce uno dei più potenti studi sulla perdita e la ricerca di una persona cara - in questo caso la madre - . Vedrò senz'altro il film.