"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 4 giugno 2008

Buongiorno notte – Il caimano – Il divo

Il cinema italiano cosiddetto “civile”, quello che si fa carico di raccontare i lati oscuri della storia del nostro paese, attraversa attualmente un periodo fecondo e molto interessante, che sembra descrivere coordinate nuove all’interno di questo particolare filone. Sembra essere stata abbandonata, insomma, la fase classica, dove il racconto cronachistico di fatti e volti della storia politica e sociale italiana non era mai disgiunto da un tono primario di esplicita denuncia, spesso facilmente (ma fieramente) didascalico (basti pensare alle pellicole di Giuseppe Ferrara), al punto da “staccare” in un certo qual modo quei fatti dalla società, vittima delle macchinazioni altrui e sfondo a tratti inconsapevole, a tratti ignaro, oppure, altre volte, silente osservatore degli eventi. Un percorso come quello descritto da film quali Buongiorno notte (2003) di Marco Bellocchio, Il caimano (2006) di Nanni Moretti e Il divo (2008) di Paolo Sorrentino, invece, sembra aprire possibilità nuove all’interno di questo particolare genere/non-genere (da intendersi in un’ottica che comunque non vuole essere “commerciale”), attraverso un lavoro sia sullo stile narrativo e visivo, che sul racconto come momento in cui l’autore investe se stesso, il proprio vissuto e lascia che il ritratto della figura istituzionale di turno divenga paradigma di una società che quel personaggio sorregge e riflette. Aldo Moro, Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti, insomma, non come figure “altre” che hanno operato ai danni o a favore della società, ma come emblemi, che quella realtà invece la rispecchiano e dalla quale inevitabilmente derivano.

Il rapimento dello statista democristiano da parte delle Brigate Rosse, nelle mani di Marco Bellocchio, non è infatti utilizzato per l’ennesimo resoconto lineare dei fatti occorsi in quei tragici 55 giorni del 1978, ma diventa invece il pretesto per un’analisi dei meccanismi utopistici e ideologici che hanno portato a quel gesto violento. Da intellettuale di sinistra, alfiere di un cinema impegnato ma dalla forte impronta umana, Bellocchio cerca quindi di restituire degli stati d’animo: lo fa con il senno di poi, ma anche con la coscienza del momento storico e dei fermenti che attraversavano il mondo della stessa sinistra. Al centro del racconto, quindi, più che gli eventi interni alla stanza dove Moro è prigioniero, sono i sentimenti contrastanti che agitano Chiara (un’intensa Maya Sansa), una delle brigatiste, ma anche i militanti del “popolo di sinistra”, che al contempo disprezzano eppure invidiano il gesto compiuto da quegli uomini che hanno imbracciato la lotta armata: se ne distanziano, ma sottotraccia ne condividono la soluzione ritenendola una giusta risposta alle storture del potere ufficiale (e occulto). Un cinema che per questo travalica il mero accadimento per farne segno di un momento storico, riflessione sulla società e sugli ideali: non tanto ideologico quanto di riflessione sull’ideologia, sulle speranze e le delusioni del periodo e dell’oggi, sulla componente umana che spesso si separa dalle idee e porta a degli errori. Non un atto di accusa, né un’ammissione di colpa, quanto una voglia di confrontarsi sul tema, lanciando anche un segnale di speranza, tanto da permettersi un utopistico e lirico finale che vede Moro libero dalla sua prigionia, quasi un fremito di possibile futuro invocato e sognato, che ha la forza espressiva del passaggio del gabbiano di fronte all’Empire State Building di warholiana memoria: un momento, un fremito di vita, talmente breve da restare impresso eppure da essere inafferrabile. D’altronde Buongiorno notte adotta innegabilmente una forma narrativa franta e dal sapore a tratti impressionista, attraverso l’uso espressivo del colore e delle musiche (esemplare l’uso stordente e lirico di Shine on Your Crazy Diamond dei Pink Floyd).

Curioso pensare che in quegli stessi anni Silvio Berlusconi iniziava la sua irresistibile ascesa che lo avrebbe portato a ricoprire una posizione dominante nel campo dell’industria televisiva privata: il resoconto di Nanni Moretti, lungi dal caratterizzarsi, come invece fu detto all’epoca della sua uscita, come un semplice film “contro”, racconta questi fatti attraverso una struttura narrativa a mosaico, intercalandoli con il privato di Bruno, un produttore di film exploitation che cerca di concretizzare una pellicola sulla vita dell’imprenditore (e poi politico) meneghino. La vicenda viene dunque a essere calata nella contemporaneità e nel quotidiano, raccontando come Berlusconi abbia incentrato la sua attività imprenditoriale sul “dare alla gente quello che vuole”, quindi ponendosi esattamente come propaggine di un desiderio sociale largamente condiviso, che non a caso poi gli ha permesso la discesa politica e ha plasmato i gusti dell’opinione pubblica. L’odissea della regista Teresa che non riesce a trovare finanziatori per il suo film, esplora quella componente ignava, ma anche pavida e fanfarona, di un’Italia comune che preferisce ignorare i problemi, fatta salva quella parte che, come lo stesso Moretti enuncia nel film, sa già tutto e si crogiola in un certo qual modo nel raccontare e sentire raccontare i fatti. Il Caimano in questo modo denuncia lo scacco di un mondo immobile, ripiegato in una nostalgia romanticamente sgangherata (dalla quale provengono gli immaginari film di Bruno – su tutti l’impagabile Maciste contro Freud), che tira a campare, lasciandosi in un certo qual modo guidare da chi si presenta come il giusto interprete dei sentimenti di tutti, anche se poi il suo vero fine è personale e la sua verità è particolaristica e produce disgregazione.

In un certo qual modo anche l’Andreotti di Sorrentino rientra in questo schema e come il Principe di Machiavelli è convinto di doversi piegare al Male per far trionfare il Bene. Ciò che però il film fa con sagacia è raccontare l’Italia della cosiddetta Prima Repubblica totalmente dall’interno dei Palazzi, attraverso uno stile grottesco che pesca direttamente dal repertorio della Commedia dell’Arte (con il suo gusto evidente per le “maschere”) per mettere in scena un macabro balletto degli orrori che dagli eccessi del potere temporale arriva direttamente al cinema espressionista come grido d’allarme per la decadenza di un’epoca (e in questo senso lo scivolare silenzioso di Andreotti nei corridoi richiama perfettamente la sagoma di Max Schreck in Nosferatu). Sorrentino alterna fascinazione per questa figura impenetrabile e complessa a una forte componente satirica che non cela la propria indignazione per un’Italia agli antipodi rispetto al ritratto tipico del Belpaese, un luogo raffigurato in maniera oscura dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi, un coacervo di intrighi, omicidi eccellenti, stragi e giochi di potere fra le correnti dei maggiori partiti. L’effetto è esaltante e nauseante allo stesso tempo per come marca la misura di un Andreotti che è l’Italia e di un’Italia che pur nella ricerca di una distanza (il processo finale) si adegua e ammira il personaggio. La narrazione procede quindi fluidamente, attraverso una forte impronta stilistica, quasi monocorde nella sua potente evidenza autoriale, spezzata a tratti da scene di autentico delirio che danno la misura umana della posta in gioco: le visioni di un Moro che, proprio come in Bellocchio, finiscono per rappresentare il rimosso e i sensi di colpa del protagonista, l’urlo nel “transatlantico” di Cirino Pomicino e, soprattutto, l’indignata confessione di un Andreotti che per un solo momento perde la sua maschera di cinismo per dare sfogo ai propri demoni interiori. Demoni che sono quelli della nostra Storia: fra il caso e la volontà di Dio, insomma, non c’è spazio per l’ammissione di estraneità ai fatti.

Intervista a Marco Bellocchio
Intervista video a Nanni Moretti
Intervista a Paolo Sorrentino

1 commento:

Anonimo ha detto...

Interessante questo percorso tra tre film accomunati forse nell'intento. I primi due devo assolutamente recuperarli.
Ale55andra