"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 30 maggio 2008

Guida per riconoscere i tuoi santi

Mentre promuove il libro basato sulla sua infanzia nel Queens, Dito riceve una telefonata dalla madre che lo avverte come suo padre, molto malato, rifiuti di ricoverarsi in ospedale, e lo invita a tornare a casa per convincerlo. Per il ragazzo il ritorno alla casa di famiglia è l’occasione per fare i conti con i fantasmi del passato, con quel padre che lo ha ripudiato nel momento in cui si è visto abbandonato e che per tutta l’infanzia aveva dimostrato nei suoi confronti un atteggiamento protettivo ma scostante, quasi preferendogli l’amico Antonio, che è poi finito in galera dopo aver commesso un omicidio volto proprio a salvare Dito da un delinquente del posto. Dito, dal canto suo, aveva trovato nell’amicizia con lo scozzese Mike l’occasione per fuggire dalla problematica realtà dei luoghi d’origine.

Già molte volte il cinema ha fornito agli spettatori l’occasione di assistere a debutti cinematografici basati sul resoconto di una infanzia difficile, di un conflittuale rapporto con i genitori, che spesso partono da quanto raccontato in un libro più o meno autobiografico. Nel caso di Guida per riconoscere i tuoi santi, la produzione di Sting e Trudy Styler, i riconoscimenti ottenuti al Sundance Film Festival e il cast ben assortito, con numerose star da cinema indipendente (primo fra tutti Robert Downey Jr.) rischiano poi di creare il classico effetto pregiudiziale e artificioso, di trasmettere l’idea di una pellicola furba e compiacente verso il pubblico da grande distribuzione.

Invece il film funziona, vibra, di una intensità particolare grazie a un lavoro collettivo che ha il merito di puntare tanto su una messinscena dotata di carattere, quanto su una serie di performance sincere e in grado di far emergere il realismo e la verità dell’universo rappresentato. Che si tratti di rappresentazione peraltro è lo stesso regista a dichiararlo, sia mettendo in scena un suo alter ego il cui libro dà proprio il titolo al film (il rispecchiamento quindi è preciso), sia attraverso piccoli artifici linguistici che svelano la finzione scenica: i personaggi quindi si presentano parlando in camera, vengono colti con sguardi a tratti incerti, come se fossero a disagio rispetto al proprio ruolo, creando piccoli alvei di realismo che stabilisce una certa empatia con lo spettatore. L’effetto è molto “nouvelle vague” francese, ma in realtà un possibile collegamento va cercato nel Coppola più sperimentale, quello di Rusty il selvaggio o I ragazzi della 56a strada, modello cui il film non cerca di assomigliare, ma che richiama idealmente per l’approccio fecondo adottato verso il meccanismo cinematografico.

Quello che sembra in effetti interessare a Montiel è proprio smontare la possibile evidenza della derivazione letteraria e tutto arriva a contribuire in questo senso: accanto al disvelamento del ruolo degli attori troviamo così una regia che spezza il flusso narrativo classico attraverso piccoli flash-forward che mostrano alcune azioni in anticipo; oppure piccole pause che arrivano a intercalare i momenti più concitati dell’azione, quasi rispettando i sentimenti di chi li sta vivendo, frantumandoli in singole inquadrature comunque capaci di riverberarne, attraverso il potere proprio del cinema, la forza espressiva; e infine ci sono i dialoghi: realistici, incompleti, quasi “masticati” dagli interpreti (la visione in lingua originale è d’obbligo), che spesso sovrappongono le loro voci creando una cacofonia di suoni che genera una sorta di codice interno alla comunità. Nessuno lamenta infatti di non aver compreso cosa dice l’altro e questo insieme di singole parole, mugugni, frasi incomplete, apparentemente senza senso si rivela estremamente realistico, come spesso sono i dialoghi nella vita reale, assolutamente non impostati, basati spesso sul nulla, sul piacere fisico di avere un interlocutore davanti. A prestarci attenzione, infatti, molto spesso i ragazzi del film non agiscono, ma si beano del rispettivo stare insieme, litigando anzi quando uno di loro si allontana dal gruppo, spezzando la catena di relazioni finemente intrecciata tra loro.

Montiel nel costruire i rapporti tra i personaggi non nasconde nulla, non dimentica di mettere in scena un disagio che è reale e che si estrinseca in un sentimento panico, ben colorato da una fotografia avvolgente e calda che sembra letteralmente abbracciare i protagonisti: si ha a volte la sensazione di una regia che osserva, più che dirigere, gli attori e affida alla straordinaria essenzialità dei loro gesti il procedere degli eventi. Accanto a un Downey Jr. misurato come poche altre volte, alieno dai consueti vezzi gigioneschi che gli sono propri, troviamo quindi un esordiente Shia LaBeouf, uno straordinario Channing Tatum nel ruolo del ribelle Antonio, e il veterano Chazz Palminteri, che si scrolla finalmente di dosso l’ombra del malavitoso interpretato dai tempi di Bronx per diventare un padre reticente nell’espressione dei suoi sentimenti, ma capace di provare un affetto intenso, anche duro, egoista, nei confronti di Dito.

Al di là del ritratto padre/figlio, sul quale si incentra particolarmente l’ultima parte del racconto, il film colpisce in virtù del bel ritratto di vita suburbana che mette in scena: violento, spietato, dove la sorte sembra affidata a un caso ballerino, quello che crea e disfa rovinando vite o creando possibili rapporti, dove l’amicizia ha comunque un sapore vero anche se i sogni sono destinati inevitabilmente a essere inseguiti a prezzo di grandi rinunce e trovare punti di riferimento (i “santi” invocati dal titolo) non è facile. Materiale magmatico che genera inevitabilmente conflitti, tragedie, ma è anche capace di grandi slanci di umanità e di lirismo, che connotano i passaggi più intensi dell’intera storia e le permettono di elevarsi dalla massa, non ricadendo nella retorica più banale o nel sensazionalismo di pellicole alla Sleepers.

Una bella scoperta, quella di Dito Montiel, speriamo che sappia catturarci ancora.

Guida per riconoscere i tuoi santi
(A Guide to Ricognizing Your Saints)
Regia e sceneggiatura: Dito Montiel (dal suo libro)
Origine: Usa, 2006
Durata: 96’

Intervista a Dito Montiel
Sito ufficiale americano

1 commento:

Anonimo ha detto...

A me Sleepers era piaciuto però :(
Vabè cmq questo è davvero un bellissimo film. Oltre agli attori da te citati (Downey Jr da standing ovation) ritengo eccezionale anche l'interpretazione di Diane Wiest.

"Alla fine avevo lasciato tutti, ma nessuno, nessuno, aveva mai lasciato me". Da brividi.

Ale55andra