"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 31 marzo 2008

Come l’ombra

Claudia vive a Milano un’esistenza come tante: nel tempo libero frequenta un corso di russo dove conosce Boris, supplente ucraino dai modi gentili e affascinanti, di cui si innamora. Un giorno l’uomo le chiede di ospitare per un breve periodo sua cugina Olga, appena arrivata dall’Ucraina e che non ha un posto dove dormire. Fra le due donne in breve si stabilisce un rapporto di complicità, ma un giorno Olga esce e non torna più a casa. Claudia quindi cerca di ritrovarla.


Marina Spada vive a Milano, dove insegna alla Scuola di Cinema: alle spalle ha una militanza sul set di Non ci resta che piangere e una laurea in Storia della Musica. E ha realizzato due film, Forza Cani nel 2002 e questo Come l’ombra nel 2006, presentato alle Settimane degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia. Un film piccolo, intimo, ma prezioso e folgorante, una di quelle opere che restano impresse nel cuore e nella memoria nonostante raccontino una storia quotidiana e lontana dai clamori. Come lontana dai clamori è la stessa Marina Spada, che non ha nessuna intenzione di trasferirsi a Roma per entrare nel “giro grosso” della cinematografia e sceglie come set del suo film una Milano inedita, lontana dalle facili iconografie: una città che non è un luogo iconico, ma un teatro di vita, come tanti, dove vivono persone come tante.

Una di queste è la protagonista del suo film, la cui vita è indagata con discrezione, nei suoi dolori e nei suoi piccoli momenti di felicità. Claudia è una donna sola, forse inappagata, quasi un’ombra che scivola fra le pareti del suo appartamento e le vie della città. La macchina da presa la segue a distanza, spesso ne anticipa i movimenti, descrive percorsi nella città e negli ambienti in modo affascinante, con piani sequenza molto ragionati in spazi ben definiti, stando attenta a non cadere nel facile virtuosismo. E’ partecipe delle sue emozioni, ma le lascia la possibilità di viverle nella propria intimità, ancora una volta senza clamori. La vediamo nascondersi sotto il lenzuolo, discutere con la madre e amare un uomo.

L’arrivo di Olga è allo stesso tempo una conseguenza di questa vita e una sorpresa: la ragazza infatti viene quasi forzatamente ospitata in casa da Claudia, “costretta” a darle asilo e a rinunciare per questo a una vacanza all’estero con gli amici. Il rapporto con Boris sembra così colorarsi di opportunismo, lui è sfuggente, lontano, si nega al telefono e sparisce, è un’ombra anche lui, riverbera l’illusione di un momento. Con Olga invece le cose sembrano andare bene: la ragazza è vivace e amichevole, ma anche lei discreta, è giunta da lontano per affrancarsi da una vita infelice e sogna l’Italia delle opportunità, ma non è arrivista. Claudia si trova a suo agio con lei, è contagiata dalla sua allegria, ci esce insieme, si ubriaca pur sapendo che le farà male e si diverte.

Ma un giorno Olga sparisce, come nel più classico dei luoghi comuni, affida a noi la sua immagine con uno sguardo in macchina molto vibrante e ridiventa un’ombra. Anche lei.

E’ in questo momento che Claudia cambia, decide di cercarla, di non essere più un’ombra e il viaggio alla ricerca della ragazza scomparsa è per lei anche una presa di coscienza, la spinge a non essere più in balia degli eventi, e ad affrontare quel mondo rimasto sempre un po’ fuori dalla finestra.

Il ritratto di solitudine portato avanti dal film è semplice ma mai banale e riesce a giocare con gli stereotipi dribblando le trappole del patetismo: Olga e Claudia cantano insieme “La solitudine” di Laura Pausini ma la scena ha un sapore di complicità, quasi di liberazione, nulla di artificioso. La fotografia poco contrastata, ad opera di Gabriele Basilico, è attenta a valorizzare le singole inquadrature, ed è sorretta da una musica minimale ma in grado di colpire le corde emotive. E’ la magia di un piccolo film che assomiglia a un piccolo haiku: poche parole ma in grado di sprigionare significato, come pochi sono gli elementi del film, ma in grado di illuminarlo e renderlo speciale. In questo senso non stupisce apprendere che fra le passioni di Marina Spada ci sia anche la poesia, e il titolo del film in fondo si ispira a un verso di “A molti”, scritta dalla poetessa russa Anna Achmatova nel 1922: “Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo / Come vuole la carne separarsi dall’anima / Così adesso io voglio essere scordata"

Il segreto è in fondo svelato dallo stesso Boris durante la lezione di russo, quando spiega l’origine delle parole, dimostrando la semplicità dei concetti che ci sono dietro i termini e l’agire dell’uomo: il processo compiuto dal film è lo stesso. Un tentativo di arrivare all’origine (o meglio all’essenza) dei comportamenti, secondo un’ottica non antropologica, ma empatica.

Quasi una teorizzazione di come si possano raccontare storie comuni, quelle classiche da cinema italiano radicalmente minimalista, ma in un modo sano, capace di unire testa e cuore ricordandoci che la magia del cinema è anche nelle pieghe del quotidiano.

Come l’ombra
Regia: Marina Spada
Sceneggiatura: Daniele Maggioni
Origine: Italia, 2006
Durata: 87’

Intervista a Marina Spada

venerdì 28 marzo 2008

I mondi fantastici di René Castillo

La plastilina è il materiale ideale per dare consistenza ai sogni: morbida eppure capace di formare figure solide, è al contempo impalpabile e concreta, e non stupisce notare come nelle mani di grandi artisti riesca a creare mondi plausibili e accattivanti. Fra gli animatori in plastilina meno noti al grande pubblico, ma non per questo meno significativi, c’è René Castillo, messicano di Guadalajara che con soli due cortometraggi realizzati a cavallo del millennio ha già riscosso numerosi premi in importanti festival internazionali come quelli di Annecy, Montréal e Seattle.

Riconoscimenti importanti per un’industria, quella cinematografica messicana, dalla quale sono già usciti talenti molto considerati a livello internazionale (pensiamo a Guillermo Del Toro e Alfonso Cuaron) e che ora allarga anche all’animazione il suo campo d’azione: come ha spiegato lo stesso Castillo, infatti, non esiste nel paese centroamericano una tradizione tale da permettere a un animatore di progredire nei suoi studi: chi vuole animare deve farlo affrontando sforzi personali, da perfetto autodidatta. Esattamente come è accaduto allo stesso Castillo, laureato in Scienze della Comunicazione e che poi ha iniziato a far da sé, fino a realizzare nel 1998 il suo primo short, in coregia con Antonio Urrutia: Sin Sostén.

4 minuti per raccontare la storia di un uomo qualsiasi, goffo e che si aggira con fare sperduto e rassegnato fra le case della sua cittadina. E’ un aspirante suicida, che nel momento del gesto estremo si ritrova a guardare due cartelloni pubblicitari, uno raffigurante un aitante cowboy, l’altro una prosperosa modella: possibili esempi di una vita sognata, invidiata, forse anche guardata con un po’ di rassegnazione. E in virtù di questa forza le due figure si animano, il cowboy salva l’uomo dal suicido con la sua corda, salvo essere lui poi a cadere, rivelando una incipiente calvizie e lasciando che il protagonista atterri fra i generosi seni della modella. Ma forse è soltanto l’ultimo desiderio sognato dal suicida nell’attimo del trapasso.

Il design grottesco dei personaggi impresso dalla mano di Castillo (anche animatore) rivela un intento ironico e anche satirico rispetto a una visione del mondo abbastanza crepuscolare e vicina a certi ritratti sociali cari a registi come Tim Burton o Fellini, che rendono il corto folgorante e gradevole. I cittadini svolgono un divertente ruolo di commento e contorno alla vicenda principale e il tono riesce a mantenere un raro equilibrio suscitando allo stesso tempo un sorriso ma anche un senso di tenerezza, parlandoci di sentimenti umanissimi come la disperazione per una vita che non regala le giuste soddisfazioni e la tentazione di arrendersi al destino.

Ma è nel 2001 che Castillo sale alla ribalta internazionale con l’acclamato Hasta los huesos, altro cortometraggio, stavolta firmato interamente dal nostro, che può considerarsi insieme un seguito e un rovesciamento di prospettive su quanto codificato dal precedente Sin sostén. L’omino morto riceve infatti degna sepoltura e per lui si aprono le porte di un aldilà che ha la forma di una strana locanda, dove si radunano avventori scheletrici e affascinanti cantanti donne (anch’esse composte soltanto da ossa), mentre un vermone dentuto cerca di divorare le carni per permettere al nostro di passare definitivamente l’ultima barriera che ancora lo separa dagli altri personaggi: quella del corpo di carne, appunto. Ma l’uomo è indeciso, fino a quando una delle cantanti non lo convincerà ad andare fino in fondo.

A partire dall’incipit, dove la macchina da presa si muove agile fra le tombe, in un movimento che ricorda parte dell’intro di Nightmare Before Christmas, Castillo rinnova il suo debito verso la tradizione gotico-grottesca del già citato Tim Burton, ma è sorprendente notare come stavolta sia l’autore americano a dover pagare pegno nei suoi confronti: scenografie e atmosfere sollevano infatti più di un sospetto circa una possibile influenza che Hasta los huesos deve aver avuto sul successivo La sposa cadavere, dello stesso Burton. Anche in questo caso, infatti, un aldilà dalla curiosa foggia di locanda/nightclub si rivela un luogo decisamente più accattivante e sereno rispetto a un mondo dei vivi grigio e dominato dalla tristezza. Una foto suggerisce infatti che la poca voglia di vivere dell’omino sia dovuta alla perdita di una persona amata e in questo senso è giusto che proprio l’amore per un’altra possibile compagna lo spinga ad andare fino in fondo e ad accettare la nuova dimensione nella quale il personaggio è atterrato.

Interessante notare come lo spirito del corto capovolga dunque quello del lavoro precedente: se prima l’omino intendeva infatti morire, in questo nuovo corto è titubante e timoroso rispetto all’idea di abbandonare il proprio corpo di carne per adeguarsi alla nuova realtà. Il film è per questo meno ironico del precedente (nonostante non manchino tocchi brillanti, inseriti con garbo nel corpo del racconto) e più dolente, si appoggia a una tradizione folkloristica e culturale tipica del Messico, evidente nel canto della donna che inneggia alla Llorona, figura mitica e temuta nelle culture latine. E riesce in questo modo a parlarci della morte, del senso di perdere una vita e del bisogno di sentirsi parte di una comunità, che sia quella dei vivi o dei morti, purché si abbia uno scopo e qualcuno da amare.

Due lavori quindi divertiti, ma capaci di grande sensibilità, dove l’animazione in plastilina riesce a far trasparire ogni gesto ed emozione, grazie a una direzione attenta e a un immaginario forgiato con passione.

Allo stato attuale René Castillo ha annunciato di voler lavorare a un lungometraggio, ma niente è ad oggi trapelato circa un suo nuovo lavoro: nel frattempo Hasta los huesos è stato trasmesso in Italia da Canale 5 all’interno del settimanale “Terra!” alcuni anni fa, con il titolo Ciao, scheletri. Speriamo di sentir parlare di lui al più presto.

Sin Sosten su YouTube
Hasta los huesos su YouTube
Sito di René Castillo
Sito della Calavera Film, casa di produzione
Intervista a René Castillo (in spagnolo)

giovedì 27 marzo 2008

Cloverfield

New York. Rob Hawkins sta per lasciare l’America per il Giappone, dove lavorerà per un’importante multinazionale. Durante la festa d’addio organizzata dagli amici, qualcosa sconvolge però la città: una gigantesca e mostruosa creatura è emersa dal mare e l’intera Grande Mela è diventata un campo di battaglia. Rob e i suoi amici cercano di fuggire. L’intero film è raccontato attraverso la videocamera di Hud, il migliore amico di Rob, ritrovata dopo i fatti di quella giornata.


La linea di demarcazione che separa il genere americano dei “Giant Monsters” dal “Kaiju eiga” [film di mostri] giapponese è sempre stata molto sottile. Il primo Godzilla, diretto da Ishiro Honda nel 1954 nasceva in fondo sull’onda del successo riscosso da Il risveglio del dinosauro nel 1953 e dalla riedizione del primo King Kong avvenuta nel 1952. Due strade parallele, dunque, destinate a influenzarsi reciprocamente ma a mantenere ciascuna dei tratti distintivi e una propria evoluzione. Con Cloverfield le carte si scompaginano: un film americano nella produzione, ma giapponese nell’animo, nato quando il brillante produttore/sceneggiatore/regista JJ Abrams era proprio nell’Arcipelago per promuovere Mission Impossibile III e si era ritrovato insieme al figlio nel reparto di un negozio di giocattoli interamente dedicato a Godzilla. Ecco dunque un vero e proprio “kaiju eiga” dove troviamo momenti topici del genere quali l'attacco ai monumenti, l'intervento inutile dei militari e il mostro goffo e un po’ “finto”, complice una CG non perfetta; ma al contempo viene negato allo stesso una personalità, accentrando l’attenzione sulle vittime umane dell’evento catastrofico, in un’ottica che è maggiormente ascrivibile ai monster movies occidentali.

Cloverfield è in fondo esattamente questo: un progetto mimetico, che mira a superare barriere e distinzioni per creare una nuova tipologia di prodotto. Un ibrido di grande efficacia in grado di giocare la sua partita su più livelli: narrativi, tematici e tecnici. Non il primo esempio nel giovane sottofilone dei “Real Movies” - girati cioè con una tecnica che simula il punto di vista di una camera più o meno professionale - ma sicuramente quello che sfrutta questa tipologia di racconto in maniera più radicale, contraddicendo tanto gli epigoni quanto la sintassi stessa del racconto cinematografico tradizionalmente inteso. Diversamente da altri “Real Movies” visti negli ultimi anni (pensiamo a The Blair Witch Project o al contemporaneo [REC]), infatti, il film non segue uno schema in grado di fornire tutte le risposte allo spettatore. Ciò che vediamo è davvero una visione parziale, uno scampolo all’interno di una tragedia più grande, dove molti sono i dubbi che restano alla fine e per dissipare i quali si deve preferibilmente far ricorso alla vasta rete di siti internet appositamente creati dalla produzione nella fase promozionale (alcuni dei quali peraltro contengono false piste). Ecco dunque che il cosiddetto “viral marketing” diventa qualcosa in più della semplice pubblicità da fare al film, diventa anzi una parte del racconto cinematografico stesso, in ossequio a quella che oggi si chiama “transmedialità” (e non stupisce apprendere che a tutto questo si è aggiunta in Giappone una miniserie a fumetti).

Ma Abrams, di concerto con il regista Matt Reeves, è bravo anche a sfruttare tecnicamente il nuovo linguaggio “finto-realistico”, la sporcizia delle inquadrature mosse, fuori fuoco, che “tagliano” i volti dei personaggi restituendo a perfezione l’idea della ripresa casuale, realizzata in fretta e per questo caricata di maggiore tensione: la storia si interrompe infatti in alcuni punti, quando i protagonisti rivedono il filmato e poi riprendono a registrare lasciando alcuni secondi di nastro “scoperti”. In quei secondi compare il girato precedentemente impresso sullo stesso nastro, che fornisce allo spettatore nuove informazioni sui protagonisti, sulla loro vita prima della catastrofe. L’espediente è doppiamente efficace perché crea un contrappunto ritmico con l’angoscia dei momenti catastrofici, ma permette anche di ricostruire meglio i legami fra i protagonisti lasciando emergere nuove spiegazioni di quanto sta accadendo durante la tragedia. Reeves e Abrams giocano con il desiderio dello spettatore di “saperne di più”, di “guardare oltre” il fatto contingente, solleticano il loro voyeurismo e la curiosità mettendo tutti noi di fronte alla patologia di una società ossessionata dall’ansia di vedere, dove la documentazione del fatto supera la necessità di una “grammatica filmica” codificata: una cattiva inquadratura vale più di una “linguisticamente corretta” se contiene in sé un evento importante. E’ la logica desunta dai filmati amatoriali che hanno documentato eventi epocali come lo schianto del primo aereo sulle Torri Gemelle durante l’11 settembre 2001 o lo tsunami che ha colpito i paesi asiatici il 26 dicembre 2004: le uniche testimonianze sono venute attraverso i videoamatori. Si è avuta quindi una legittimazione di questo modo di girare “imperfetto”, che oggi il cinema si fa carico di elevare a un livello autoriale e stratificato: per questo la tragedia del mostro è una metafora proprio dell’11 settembre 2001, dell’ansia di fronte a un evento totalizzante e distruttivo che sconvolge la normalità del quotidiano, che agisce sulle vite delle singole persone.

JJ Abrams, da grande innovatore qual è, ha compreso quindi come le strategie narrative e promozionali che nel nuovo millennio permettono di colpire i nervi scoperti della società, dribblando il cinismo dello spettatore, debbano poggiare su un nuovo immaginario, più sporco, ma maggiormente immediato. E da questo ha saputo trarre un prodotto ben inserito in una tradizione filmica, ma fresco, d’impatto, e originale nella consapevolezza che lo anima. Grazie a lui il cinema compie un piccolo passo in avanti e per noi spettatori è un piacere poterne essere testimoni.

Cloverfield
(id.)
Regia: Matt Reeves

Sceneggiatura: Drew Goddard
Origine: Usa, 2008
Durata: 85’

Panoramica sul “viral marketing” del film
Pagina di Wikipedia Italia
Intervista a Matt Reeves
Blog italiano dedicato al film
Sito ufficiale americano

mercoledì 26 marzo 2008

25 anni di… “Thriller”!

Cortometraggio o videoclip? E’ una domanda legittima considerando come sia spesso inserito anche in ambiti che non riguardano necessariamente la musica e lo si ritrovi citato in dizionari del cinema horror e non solo. Lo scoccare del venticinquesimo anniversario, che cadrà proprio il 2 dicembre di quest’anno, rappresenta comunque un’ottima occasione per riscoprirlo, sempre che sia legittimo usare un termine del genere a proposito di uno degli shorts più celebrati di tutti i tempi, appendice finale eppure punta dell’iceberg di un successo senza pari. Con 104 milioni di copie all’attivo, l’album “Thriller” di Michael Jackson risulta infatti ancora oggi il più venduto di tutti i tempi, nonché quello che ha definitivamente incoronato il cantante americano come Re del pop. Il videoclip arrivò a posteriori, un anno dopo l’uscita dell’album, e contribuì, incredibile ma vero, a rilanciarne il successo.

Come ammesso dal regista John Landis, Jackson lo coinvolse nel progetto dopo essere rimasto folgorato dal suo Un lupo mannaro americano a Londra. Landis, dal canto suo, accettò soprattutto perché attratto dall’idea di poter reintrodurre il cortometraggio nelle sale cinematografiche. L’idea di abbinare un breve film a un lungometraggio, infatti, apparteneva soprattutto al passato, con comiche o brevi cartoons che accompagnavano i successi del momento, e nel 1983 rappresentava ormai un ricordo di un’epoca lontana, che Landis rivitalizzò con piacere. Thriller accompagnò così la riedizione di Fantasia prima dei vari passaggi su Mtv (in anni più recenti si può prendere a esempio la proiezione de L’ultimo volo dell’Osiris della serie Animatrix, abbinato in sala a L’acchiappasogni di Lawrence Kasdan).

Non stupisce pertanto notare come il lavoro svolto da Landis con questo videoclip sia del tutto ascrivibile alla sua personale idea di cinema: in 14 minuti di girato, infatti, vengono passati in rassegna una serie di sottofiloni dell’horror cinematografico passato e presente, in ossequio al gusto cinefilo dell’autore. Per meglio comprendere questo aspetto bisogna considerare come, insieme a colleghi quali Joe Dante, John Landis stava conducendo negli anni Ottanta un fecondo tentativo di innovare la tradizione del fantastico in senso iconografico e linguistico con un citazionismo che non diventava semplice riproposizione dei modelli, ma una vera e propria scomposizione e ricomposizione di figure, scenari e storie del passato: un approccio che partendo dal ricordo diventava analisi critica del passato e apriva la strada a possibili interpretazioni del presente (in tempi più recenti questa pratica è stata ripresa e portata avanti da Quentin Tarantino). Non è un caso che, proprio un anno prima di Thriller, Landis avesse realizzato il bizzarro Coming Soon, raccolta-omaggio di trailer e sequenze di film horror classici, e che sempre negli stessi anni cercasse di far tornare dietro la macchina da presa il grande maestro del fantasy anni Cinquanta Jack Arnold (un progetto purtroppo naufragato).

Alla luce di tutto questo, Thriller parte con un incipit che cita gli exploitation horror-adolescenziali degli anni Cinquanta come I was a Teenage Werewolf e i gotici anni Trenta della Universal, e passa quindi allo zombie movie con una scena di resurrezione dei cadaveri fra le migliori della storia del cinema, omaggio sia a George Romero che a La lunga notte dell’orrore di John Gilling, piccolo classico della Hammer Film. E se la voce narrante di Vincent Price rimanda ovviamente al gotico anni Sessanta, la gustosa coreografia che vede Jackson danzare insieme ai morti viventi può essere vista come una simpatica strizzata d’occhio a Skeleton Dance, macabra eppure divertentissima Silly Simphonie disneyana del 1929!

Il gioco di scatole cinesi che mescola realtà e finzione attraverso un Jackson di volta in volta lupo mannaro o zombie, ci dice anche della natura critica di un progetto che vuole metaforizzare il disagio dello stesso Jackson circa la propria immagine: in quegli stessi anni, infatti, l’interprete di “Billie Jean” e “Bad” stava sottoponendosi ai primi interventi di chirurgia plastica, una tendenza che nel tempo avrebbe definitivamente mutato il suo aspetto. In tal senso la sua conversione in mostro ha un retrogusto che oggi possiamo considerare sicuramente amaro.

Altro lavoro interessante riguarda quello compiuto sul corpo stesso della canzone: il video infatti non viene costruito intorno al testo, ma è quest’ultimo a essere adattato, smembrato e, anch’esso, mutato e adeguato alle esigenze ritmiche del racconto. Alcune parti sono accorpate o eliminate, mentre altre vengono ampliate per offrire allo spettacolo, sempre in bilico fra orrore e ironia, le sue occasioni migliori. Il rapporto fra realtà e sua rappresentazione gioca inoltre con il cinismo dello spettatore, anticipandolo e dribblandolo in quello che diventa un vero e proprio gioco che rinnova il potere di un cinema fatto per divertire e stupire. Quasi un artificio illusionistico insomma, che si pone in perfetta continuità con il testo stesso della canzone: analizzandone infatti le parole è chiaro come “Thriller” sia un brano volto a riverberare il divertimento (alquanto infantile, ma non bambinesco) per la paura, per il piacere di spaventare il prossimo attraverso l’evocazione di immagini vivide e spaventose (mani che afferrano il collo, creature che strisciano nel buio e quant’altro).

Merito di Landis è stato dunque anche quello di non aver semplicemente esplicitato in immagini quanto inventato nel testo, ma di averne adeguato lo spirito a una narrazione divertita e citazionista affine alla sua memoria cinefila.

Thriller rimane quindi un momento importante nella storia del videoclip e del fantastico anni Ottanta, pur non essendo il primo esempio del genere: un anno prima, nel 1982, i Duran Duran e il regista Russell Mulcahy avevano realizzato l’interessante e poco considerato videoclip “Nightboat”, mentre bisogna tornare al 1962 (ben prima dell’avvento dei video musicali quindi) per trovare un altrettanto interessante brano musicale assorto a fenomeno di costume, ovvero “Monster Mash” di Bobby “Boris” Pickett. A conti fatti “Thriller” può considerarsi quasi un suo erede.

Michael Jackson’s Thriller
(id.)
Regia: John Landis

Sceneggiatura: John Landis, Michael Jackson
Origine: Usa, 1983
Durata: 14

Il video sul sito della Sony BMG

martedì 25 marzo 2008

Transformers

Dal lontano pianeta Cybertron, robot alieni in grado di assumere la forma di veicoli terrestri sono giunti sul nostro mondo in cerca del Cubo dell’Allspark, fonte di energia e vita per la loro razza. Sono divisi in due fazioni: i buoni Autobots, comandati da Optimus Prime, e i malvagi Decepticons, guidati da Megatron. La chiave per scoprire l’ubicazione del Cubo è custodita da un ignaro adolescente, Sam Witwicky, cui interessa soltanto comprare un’auto per conquistare la sua bella. A lui è affidato il destino del mondo.

La distanza che separa un’auto da un robot è misurabile con la meraviglia. E’ quanto aveva già capito Steven Spielberg oltre vent’anni fa, giocando insieme ai figli con i celebri “Transformers”, creati in Giappone dalla Takara, e poi portati alla ribalta internazionale dall’americana Hasbro. “Sapevo che in quel franchise c’era un film da fare” è stato il pensiero del grande regista e produttore americano. Un film in grado non soltanto di reiterare il divertimento per chi aveva conosciuto i giocattoli, o aveva visto le tante serie animate poi giunte anche in Italia, ma soprattutto di rinnovare il piacere della meraviglia, dello stupore quasi infantile, primario, alla base di tanto cinema spielberghiano classico.

Transformers in questo senso è un film di Steven Spielberg, nonostante il lavoro svolto da Michael Bay in cabina di regia. Perché totalmente ascrivibile all’autore di E.T. è la poetica di fondo presente in un film stupefacente nel senso più vero del termine: si resta stupefatti di fronte alle trasformazioni dei veicoli in robot, come accade peraltro agli stessi protagonisti della vicenda, spesso ripresi proprio in espressione estatica.

Le trasformazioni, come da titolo, sono le protagoniste: la camera le inquadra con un senso quasi sacrale, potente, rispettandone l’alterità ma cercando di svelare anche i possibili punti di contatto con il nostro mondo, mentre la stupenda musica di Steve Jablonsky ne omaggia la forza epica attraverso sonorità enfatiche ma carezzevoli, che guidano lo spettatore alla scoperta di questa nuova realtà. Per questo Autobots e Decepticons racchiudono in sé l’alieno spielberghiano di ieri e di oggi, la natura salvifica e vagamente angelica degli extraterrestri di Incontri ravvicinati, ma anche la foga distruttrice dei marziani de La guerra dei mondi.

Il film non a caso è costruito secondo una logica di conciliazione fra opposti: cosa potrebbero mai avere in comune dei giganti metallici esperti in battaglia con un goffo adolescente vessato dai genitori e interessato unicamente a farsi notare dalle ragazze? E ancora, cosa possono avere in comune un hacker affamato di ciambelle e gli analisti informatici del Ministero della Difesa Americano? Oppure i militari di stanza in Qatar e i civili mediorientali che li aiutano nel momento del pericolo? Esattamente quanto possono avere in comune un’auto e un robot: quasi nulla, anzi, dovrebbero trovarsi sui fronti opposti della stessa barricata, dividi da cultura, razza, religione, filosofie e comportamenti radicati. Eppure nella capacità di mantenere in equilibrio elementi fra loro distanti si ritrova il messaggio positivo del film, che è poi quello alla base dell’umanesimo e della fiducia nell’altro tipica del cinema di Steven Spielberg. Transformers vuole perciò costituire anche un auspicio per un mondo arroccato su posizioni di timore nei confronti dell’altro affinché superi le sue divisioni e si riunisca per rinnovare la conciliazione fra opposti.

La logica dell’ossimoro accompagna perciò la struttura stessa del film, che unisce azione roboante con una certa ironia demistificatoria (peraltro perfettamente in linea con il cartoon originario e con le strategie narrative di molti anime giapponesi, quasi a ribadire le origini di tutto), che vede i robot tanto potenti quanto preoccupati di nascondersi ai genitori di Sam, subire le angherie del cagnolino di casa e innaffiare il funzionario governativo con la loro benzina in modo irriverente! E l’amalgama funziona, risulta scevro da volgarità, ma accompagna una storia fantastica eppure credibile, attenta ad analizzare le conseguenze militari e politiche dell’invasione (per i primi attacchi vengono in un primo momento sospettate Cina o Iran), senza rinunciare all’ironia, che conferisce al tutto un certo brio, ma anche un sapore più infantile, che fa da contraltare alla seriosità della guerra fra i robot. Siamo insomma a metà strada fra lo scenario fantapolitico e il gioco per spettatori disposti a lasciare da parte il cinismo.

In questo senso Michael Bay si dimostra una scelta professionale, ottiene campo libero per dar sfogo alle proprie ossessioni stilistiche (fotografia patinata, uso della camera a mano nelle scene d’azione interrotta da ralenti molto plastici, costruzione iperbolica delle sequenze spettacolari) ma al contempo l’equilibrio degli elementi tiene insieme il film evitando deragliamenti, trivialità o pesantezze come accadeva nei suoi lavori precedenti. E perciò Transformers affascina. Meraviglia e risulta epico, appassionante. Si riesce a credere in questi moderni supereroi d’acciaio e il momento della trasformazione ha un sapore quasi ritualistico, come era nel cartoon. L’elogio dei buoni sentimenti portato avanti da Optimus Prime (leader carismatico e un po’ paternalista) non risulta stucchevole, ma naif. I maghi degli effetti speciali (meritevoli di un Oscar inspiegabilmente veicolato altrove) dal canto loro gongolano nel rimettere in scena gli eroi del passato secondo un’ottica nuova, sperimentano, di concerto con Bay, prospettive inedite per le scene di trasformazione e spingono lo spettatore su un ottovolante divertente e innocuo. Rigenerante perfino.

Alla fine la distanza fra un’auto e un robot viene colmata, così come il cinema di Steven Spielberg si unisce alla tecnica di Michael Bay. E lo scetticismo dello spettatore confluisce senza troppe difficoltà nel dimenticato sense of wonder.

Transformers
(id.)
Regia: Michael Bay
Sceneggiatura: Roberto Orci e Alex Kurtzman
Origine: Usa, 2007
Durata: 144’


Intervista sugli effetti speciali
Conferenza stampa di presentazione
Intervista agli sceneggiatori
Sito italiano sull’universo “Transformers”
Sito italiano ufficiale del film

sabato 22 marzo 2008

Incident at Loch Ness

2003. Una troupe che sta realizzando un documentario sul regista tedesco Werner Herzog segue i preparativi di un suo film sul mito del mostro di Loch Ness. Le cose non vanno come previsto: molti sono i problemi logistici e inoltre il produttore Zak Penn vuole trasformare il documentario in un’opera spettacolare e commerciale, all’insaputa dello stesso Herzog. La produzione lentamente si sfalda, ma l’avventura prosegue con risvolti inaspettati che vendono il mostro coinvolto direttamente…

Lo scorso gennaio il Museo del Cinema di Torino ha dedicato un omaggio al grande regista Werner Herzog con una retrospettiva integrale di tutti i suoi lavori. Un ottimo pretesto per indagare a fondo la sua poetica e la lunga avventura di un cinema contraddistinto da sfide estreme, condotte però con una grande moralità e fiducia nella settima arte. A ideale completamento di un percorso artistico ormai quarantennale, può giungere opportuna la riscoperta di questo gustoso film, costruito sul modello del finto documentario, a metà strada fra Lost in La Mancha e The Blair Witch Project. Come il primo, infatti, il film racconta le riprese di un progetto incompiuto (che nel caso specifico è però del tutto inventato), mentre dal secondo è ripresa la struttura narrativa da reportage sulle orme di un Mito che si rivela fin troppo pericoloso…

La pellicola rappresenta l’esordio registico di Zak Penn, sceneggiatore hollywoodiano, specializzato in blockbuster stratificati e intelligenti come Last Action Hero e X-Men 2 e quindi personalità poliedrica e interessante, che in questo caso riesce a far viaggiare il suo prodotto su più binari, in modo divertente ma anche molto arguto. Il film, infatti, vuole essere innanzitutto una riflessione sull’opera di Werner Herzog (anche produttore), che con grande autoironia, ma anche grande cognizione del proprio mito, si è messo in gioco ripercorrendo non solo i tratti tipici del suo percorso autoriale, ma anche tutte le leggende costruite intorno alle lavorazioni più estreme della sua carriera (prima fra tutti il rapporto burrascoso con Klaus Kinski che lo avrebbe spinto a dirigere l’attore con una pistola in pugno!).

Il film quindi esplora l’approccio di Herzog a una dimensione al contempo fisica e metafisica del cinema, fatta di immersione nella realtà senza sovrastrutture che permettano al mezzo di inficiare la sostanza della sfida: in questo caso l’obiettivo non è tanto scoprire quanto di vero ci sia dietro la leggenda del mostro di Loch Ness (che anzi viene dato certamente per falso), quanto comprendere i motivi che spingono l’uomo a creare e a credere in queste figure leggendarie. Come enunciato dallo stesso Herzog il film vuole esplorare la componente estatica insita nel Mito, cioè gli elementi che, partendo dal reale, promanano un’aura fantastica in grado di affascinare la gente al punto da sospendere ogni incredulità. Per fare questo Herzog intende agire senza schemi preordinati, con sopralluoghi sul posto e interviste a gente locale: l’analisi parte dunque dagli elementi del reale in una sorta di ideale ricostruzione del percorso che ha portato il luogo a produrre la sua leggenda. Lo stile di regia adottato dal film è in questo senso molto affine all’opera stessa del regista e ai più recenti lavori come Il diamante bianco o Grizzly Man, capaci di utilizzare il linguaggio del documentario in senso lirico, per cogliere i sentimenti che animano i protagonisti nel loro rapporto con l’ossessione e rappresenta un interessante excursus sui metodi registici (quelli sì reali) dello stesso Herzog.

L’obiettivo del produttore (interpretato proprio da Zak Penn), invece, è quello di “elevare” il cinema herzoghiano a una qualità maggiormente soprannaturale inserendo elementi iconici (la troupe viene costretta a indossare delle tute per essere riconoscibile) ed exploitation (una modella in bikini è ingaggiata nell’improbabile ruolo di addetta al sonar, mentre un modellino di mostro viene utilizzato in acqua). Il tutto per avvicinare il regista tedesco a un pubblico maggiormente hollywoodiano. La sfida fra le due personalità sancisce come il produttore americano consideri la menzogna come parte integrante dell’artificio cinematografico, che perciò deve essere assecondato acriticamente per dare al pubblico ciò che lo stesso vuole. Ma Herzog si rifiuta poiché non accetta l’inganno insito in questo approccio, a ribadire la caratura morale del suo cinema. 

Il lungo “duello” fra i due si caratterizza quindi come un divertente saggio sulla distanza che separa l’indipendenza artistica dalla commercializzazione di un film visto come prodotto, e quindi come un vero e proprio monumento all’opera di Herzog, ma anche come una sua possibile corruzione, una messa in crisi che viene ribadita dallo stesso regista (e dagli altri membri della troupe) attraverso una serie di interviste a camera fissa, realizzate dopo i fatti del 2003, ma integrate al girato a mo’ di commento.

La seconda parte del film cambia registro e, oltre a vedere la produzione sfaldarsi progressivamente, immette l’elemento fantastico giocando sui toni del blockbuster catastrofico e del film horror in puro stile Lo squalo: Herzog e soci si ritrovano pertanto in balìa del mostro fino all’affondamento della nave. In questo segmento del film si produce un rimescolamento di carte a dir poco esaltante poiché Herzog diviene personaggio del suo film (e quindi di quello di Penn), ma anche consapevole artefice di una realtà dove il Mito si è materializzato e dove lui è il testimone destinato a filmarlo. Non a caso nel finale Herzog si dichiara deluso da un’avventura che ha superato la componente estatica per diventare realtà in tutta la sua drammaticità (due membri della troupe perdono la vita nell’impresa). Un’esperienza che costituisce una sorta di contrappasso condotto sul filo dell’autoironia ma che non risparmia un certo retrogusto amaro, a sancirne una certa natura catartica.

La confusione tra verità e finzione traghetta dunque il cinema herzoghiano nelle maglie di quello caro a Zak Penn: non solo infatti il suo personaggio riesce alla fine a stringere fra le mani proprio quel film spettacolare da lui tanto sognato, nella forma di questo sgraziato making of, ma la confezione generale omaggia ancora una volta il gioco di scatole cinesi e l’attenzione a una realtà a strati dove menzogna e finzione sono parte integrante della verità. Incident at Loch Ness, come Last Action Hero rappresenta quindi un omaggio critico al cinema come enorme meccanismo di finzione cui è delegato però il potere di rappresentare i sogni dell’uomo e che proprio nel disvelamento della sua vacuità trova la propria grandezza.

Il risultato è un film che, per nulla sminuito da questa sovrastruttura teorica riesce a essere soprattutto emozionante, divertente e, perché no, anche pieno di tensione. Un intelligente esempio di come si possa analizzare e omaggiare con ironia l’opera di un maestro del cinema come Werner Herzog creando allo stesso tempo un prodotto autonomo e appassionante.

Purtroppo inedito in Italia, il film è stato proiettato al Ravenna Nightmare Film Fest 2005 ed è disponibile in ricche edizioni DVD all’estero. Se ne raccomanda caldamente la visione.


Incident at Loch Ness
Regia: Zak Penn
Sceneggiatura: Zak Penn, Werner Herzog
Origine: Uk, 2004
Durata: 94’

venerdì 21 marzo 2008

Il solito sesso

C’è sempre una strana emozione che attraversa le canzoni di Max Gazzé: apparentemente così semplici eppure così profonde, lasciano trasparire una poesia timida, discreta, affine alla bizzarra figura del loro autore e interprete, moderno menestrello, un po’ poeta, un po’ abile giocoliere delle parole. Come dice in fondo il titolo di una delle sue canzoni più famose “Una musica può fare” e può stimolare un immaginario, delle situazioni, delle figure.

Con “Il solito sesso”, presentata all’ultimo Festival di Sanremo e inclusa nel nuovo album “Tra l’aratro e la radio”, Gazzé ci presenta un’immaginaria dichiarazione d’amore telefonica che uno sconosciuto rivolge all’amata, conosciuta poche ore prima, durante una festa. Il testo, scritto dal sodale fratello Francesco, è come sempre attento a non cadere nel banale attraverso metafore semplici ma ricercate, che imbastiscono una metrica di chiaro impatto. Contestualmente, la musica accompagna il tutto con sonorità a tratti jazz che non rinunciano però a quell’atmosfera generale orecchiabile che permette al brano di essere memorizzato con facilità. Il titolo, che si riferisce alla preghiera rivolta alla donna affinché non consideri quelle parole unicamente finalizzate a un rapporto sessuale, ribadisce la discrezione, l’agire timido del Gazzé cantante: l’amore non chiede nulla in cambio se non la possibilità di essere espresso.

Le immagini che si evocano sono quindi quelle di un sentimento talmente sincero da risultare naif, quasi desueto in quest’epoca urlata e che perciò volge al passato, cita “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, ma fa tornare in mente anche altre celebri “telefonate musicali” come “Piange il telefono” di Domenico Modugno (paragone già avanzato dai geniali Elio & le Storie Tese nella loro esecuzione del brano al “Dopofestival”) o, con maggiore distanza, “Buonasera dottore” di Claudia Mori & Alberto Lupo. Per certi versi è come se Gazzé riprendesse in fondo i due elementi essenziali di entrambi i modelli, ovvero il lirismo di un amore che vuole travalicare il semplice momento per diventare metafora di un sentimento assoluto, e una velata ironia che scorre sottotraccia. Ironia che si palesa materialmente nel finale, quando la conversazione viene chiusa in modo quasi brusco, sancendo la prospettiva del tutto personale e intima della poesia, che si autoalimenta quasi senza bisogno dell’interlocutore: è un mondo in prima persona quello che in effetti Gazzé mette in piedi, una visione personale e per questo soltanto sua. Ancora una volta, è una visione che chiede soltanto di poter essere espressa.

Allo stesso tempo, però, questa visione non diventa mai compiaciuto esercizio di stile, così come la musica del cantante romano non è mai intransitiva, ma anzi capace di divertire e rendere il pubblico partecipe, come potrà testimoniare chiunque abbia avuto la fortuna di assistere a uno dei suoi concerti.

Il video che segue mostra l’esecuzione sanremese del brano, nella versione a tre con Gazzé, Paola Turci e Marina Rei. Questa versione non è stata inclusa nell’album, ma merita di essere ascoltata con attenzione per la ricchezza vocale conferita dalle due interpreti femminili alla bella melodia e al testo. Un valore che arricchisce la vena romantica del brano amplificandone la resa emotiva.