Drive
E' uno stuntman per l'industria hollywoodiana, ma nelle notti di Los Angeles è anche il miglior autista possibile per compiere una rapina. Un giorno però qualcosa cambia, quando conosce la famiglia che vive nell'appartamento accanto al suo: Standard, il padre, è in prigione e a casa lo aspettano sua moglie Irene e il piccolo Benicio. Una volta uscito, Standard viene ricattato dalle persone cui deve dei soldi, che minacciano di far del male ai suoi cari. Così lui li aiuta, mette a disposizione il suo talento per una rapina a un banco di pegni che dovrebbe saldare ogni debito, ma l'imprevisto è in agguato: Standard viene ucciso, era tutta una trappola, e Irene e Benicio sono i prossimi sulla lista. L'unica possibilità di garantire la loro salvezza è saldare i conti con la forza.
C'è
una costante evoluzione in atto nel cinema di Nicolas Winding Refn,
bastano le prime battute a precipitarci infatti in un universo dove
le ossessioni che corrono sottotraccia sono ancora le stesse, ma la
superficie è differente,
ormai lontana dagli umori che deflagravano potenti nella trilogia
di Pusher,
punta di diamante della prima fase della sua produzione. Così, ci si
aspetterebbe di trovare dietro il volante ancora una volta il volto
iconico del magnifico Mads Mikkelsen, espressione dei tanti animi
inquieti che hanno abitato le storie di Refn, ma invece lo sguardo è
quello non meno ieratico di un Ryan Gosling che gioca comunque con le
pulsioni trattenute dei suoi predecessori, come il Lenny di Bleeder
o il One Eye di Valhalla Rising,
in un gioco di distanze e avvicinamenti che più di ogni altra cosa
ci dice dell'operazione in atto.
Il
regista danese tende infatti a mutare la forma del suo cinema tanto
più quanto i suoi temi, i suoi feticci e il suo stile si intrecciano
con la tradizione di una cultura altra
e di un genere codificato quale può essere, in questo caso, il noir
americano: Refn dimostra di conoscere perfettamente le opere dei
maestri, le varie articolazioni e dinamiche di queste storie, le
ossequia ma allo stesso tempo tenta di aggirarle e superarle
attraverso una dimensione personale che permetta a Drive
di andare oltre il semplice ricalco stilistico, innescando un gioco
di riconoscibilità e differenze con il passato (proprio e altrui).
Sono
dunque cambiati i volti, ed è cambiato anche lo spazio, immersi come
siamo in una realtà magmatica che scivola senza soluzione di
continuità fra le tonalità vagamente psichedeliche delle notti
losangeline e gli esterni soleggiati dove si svolge la vita
quotidiana. Qui sta l'altro elemento significativo, quello che
permette al film di creare lo scarto necessario a non mettere in
scena una dicotomia fra le sue due personalità, che poi sono le due
del protagonista, ma una coesistenza delle stesse. Non, dunque, notte
contro giorno, ma una sorta di interregno di luci e ombre dove il
“Driver” può essere stuntman, meccanico e rapinatore in pieno
giorno, rompendo in questo modo il presupposto che pure le battute
iniziali della storia sembravano porre in essere attraverso la
contrapposizione fra un'attività notturna e una diurna.
Così, al pari sempre del
One Eye di Valhalla Rising, ma con una consapevolezza teorica
che discende direttamente da esperimenti come quello di Fear X,
l'autista stabilisce il tono della vicenda, conferendogli
quell'andamento a metà fra sonnambulismo e fiaba, in un alternarsi
di lontananza e vicinanza che piega la stessa forma del racconto agli
stati d'animo di volta in volta messi in campo. Non a caso, rispetto
al romanzo originale di James Sallis, Refn opera per una
ricomposizione del racconto, rompendo l'alternanza fra passato e
presente, e riconducendo l'intera storia a un tempo unico, pur
sfruttando il montaggio parallelo per creare punti di contatto fra
momenti comunque distanti. Si crea in questo modo una zona
intermedia, in cui i tempi sono continuamente riscritti, le luci
cambiano come in un noir di Edgar Ulmer e il personaggio può passare
dal ruolo di criminale a quello di figura protettiva e comprensiva
nei confronti di una famiglia con cui instaura comunque un rapporto
sempre a distanza, quasi come un intruso che – a parte
l'inevitabile resa dei conti finale – finisce per istillare più
dubbi che sicurezze: si veda a tal proposito la bella sequenza sul
pianerottolo, dove si percepisce una latente forma di nervosismo fra
il personaggio e Standard, intento a gettare l'immondizia.
La tensione per un
qualcosa che ribolle sotto la superficie è in definitiva l'autentica
sostanza nascosta del film, che riesce a sfruttare uno stile sinuoso,
con movimenti di macchina morbidi e personaggi che sembrano scivolare
fra spazi di volta in volta dilatati pur nella minima distanza che li
separano (i due appartamenti adiacenti): tutto questo rende pertanto
pleonastico il ricorso alla “figura retorica” dell'inseguimento
automobilistico, qui negato e spesso “congelato”, quando non
ridotto a pochi momenti dove comunque non viene trasmessa
l'impressione della velocità, ma al contrario tutto si riduce non a
caso a un mascheramento con gli elementi architettonici e gli
interstizi offerti dalla città, in una continua frammentazione
dell'azione. Al pari del mascheramento finale dello stesso autista,
della sua natura ibrida suggerita anche dalla professione di
body-double per l'industria cinematografica, siamo nel pieno
regno di una figura fantasmatica, che non a caso trova nella
concretezza degli affetti familiari (da cui però è escluso) la sua
ragione d'essere, quella che gli fa scivolare una goccia di sudore
sulla fronte o gli fa brandire il martello con un nervosismo che
tradisce una forma di incertezza, una tendenza a non lasciar
esplodere fino in fondo la sua furia repressa.
Il risultato di questa
forza espressiva che Refn governa con incredibile attenzione è
quello di un film ossessivo eppure poroso, fondato sulla figura
retorica dell'ossimoro, ma capace di mantenere una latente tensione
per l'intera sua durata, e di permettere al citazionismo da sempre
presente nell'opera dell'autore danese di esprimersi con più forza
che in passato. Il tutto con un formidabile lavoro sui volti
(straordinario nella sua “inattualità” quello di Carey Mulligan)
e l'approdo ad una violenza parossistica, ma stavolta più stilizzata
che reale, e che forse permette di chiudere i riferimenti interni al
corpus d'opera del regista attraverso il parallelo con la più
imprendibile delle sue pellicole, quel Bronson che a distanza
di tempo – e pur con le riserve del caso – rimane l'autentico
manifesto teorico della sua filmografia.
Drive
(id.)
Regia: Nicolas Winding
Refn
Sceneggiatura: Hossein
Amini (dal romanzo di James Sallis)
Origine: Usa, 2011
Durata: 95'
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